A. Sansoni: “In Italia manca la politica, un’idea di Europa e una destra che ritorni a pensare”

A. Sansoni: “In Italia manca la politica, un’idea di Europa e una destra che ritorni a pensare”

A colloquio con Alessandro Sansoni, direttore di Culturaidentità.

Questi passeranno alla storia come “i tempi del Coronavirus”, ovvero della più grande emergenza sanitaria degli ultimi anni che il globo abbia dovuto affrontare. Dal nostro punto di vista si può discutere sulla reale portata dell’epidemia, ma non si può negare che il virus abbia provocato una reazione che non ha precedenti nel mondo occidentale, quello che nell’immaginario collettivo è caratterizzato da libertà e democrazia che vanno a braccetto col capitalismo. Assistiamo a grossi limiti posti alla libertà di movimento delle persone, cui conseguono ovvi divieti relativi all’attività produttiva e, in generale, economica. Al tempo stesso anche l’attività dei parlamenti nazionali è stata compressa. Le scuole sono state chiuse del tutto, i tribunali quasi. Diritti individuali, sociali ed economici sono stati sacrificati in nome dell’emergenza e della tutela della salute. In Italia siamo stati i primi a chiudere. Per settimane ci si è fatto vanto dell’esistenza di un “modello Italia” nella gestione del virus. Il nostro presidente del Consiglio lo ha addirittura illustrato in varie interviste alla tv tedesca. Credi che la reazione italiana sia stata davvero presa ad esempio dagli altri paesi europei?

La mia impressione è che non esiste nessun “Modello Italia”, se non in negativo, e che sin dall’inizio gli altri paesi europei si siano ben guardati dall’assumere i nostri provvedimenti ad esempio da imitare.

Sin dall’inizio ci sono state clamorose differenze. Nella prima fase, quando il virus è giunto in Europa e l’Italia ha vissuto con anticipo rispetto agli altri paesi l’esplosione del morbo, mentre noi abbiamo dichiarato l’epidemia da coronavirus “emergenza sanitaria”, mettendo di fatto il paese in mano ai medici e dando ampio risalto mediatico all’aumento dei contagi, altrove si è preferito gestire il problema come “questione di sicurezza nazionale”. Questo ha comportato un’assunzione di responsabilità innanzitutto per gli apparati, la politica e i servizi di intelligence, con meno risalto pubblico all’evolversi della situazione e alle misure che si andavano assumendo per fronteggiare l’epidemia.

Non a caso, solo dopo che l’11 marzo l’OMS, su pressione della Cina, dell’Italia e, presumibilmente delle aziende farmaceutiche, ha dichiarato ufficialmente quello da Covid-19 evento pandemico, anche gli altri paesi europei ed occidentali si sono visti costretti ad assumere quella serie di misure definite lockdown, ovvero “la serrata” di tutte le attività, e ciò soprattutto in virtù di una serie di trattati internazionali legati all’OMS.

Eppure, anche da questo momento in poi, abbiamo continuato ad avere differenze sostanziali, rispetto a quanto accadeva in Italia. Innanzitutto, mentre nel nostro paese si è continuato a procedere a tentoni riguardo ai tempi, prolungando la serrata di due settimane in due settimane, senza fornire certezze in termini di crono programma, negli altri paesi si è provato a definire immediatamente un orizzonte di tempo. Soprattutto sul tema cruciale della chiusura delle scuole, mentre da noi, nonostante l’ambiguità, è subito stato chiaro che l’anno scolastico andava considerato chiuso (come se si trattasse di un problema secondario), altrove molti sforzi sono stati profusi proprio allo scopo di contenere quanto più possibile la sospensione delle lezioni.

Ma le differenze più macroscopiche si sono avute, in generale, rispetto al modo di intendere il lockdown. In nessun paese europeo esso è stato duro per intensità, durata e qualità come in Italia. In Germania, e in generale nei paesi nordici e mitteleuropei, sia la sospensione delle attività lavorative sia la contrazione del diritto alla mobilità sono state assai più contenute. Per non parlare di paesi come la Svezia dove ancora la gente frequenta bar e ristoranti. Anche in paesi duramente colpiti come Francia e Spagna, dove pure il virus ha contagiato e ucciso molto, i tempi della serrata totale sono stati molto più brevi e in generale si è cercato di consentire ad alcune attività, soprattutto edili e industriali, di non fermarsi del tutto. Paesi come Austria e Danimarca hanno risolto la faccenda in un paio di settimane.

Tutto questo senza considerare la tempestività degli interventi a sostegno dell’economia: se in Germania due tre giorni dopo la dichiarazione dello stato di emergenza già lavoratori autonomi e microimprese hanno visto sul proprio conto apparire i 5.000 euro di sussidio, dopo aver compilato un autocertificazione semplice on line di un paio di paginette, o in Francia la cassa integrazione è entrata subito in azione, da noi abbiamo assistito per settimane ai balletti del governo e dell’Inps, tra annunci, siti internet che cedevano e macchinose disfunzioni burocratiche (per non parlare di miliardi di euro disponibili solo sulla carta). Risultato: solo da qualche giorno i lavoratori autonomi – non tutti – hanno ricevuto i 600 euro di cui si è cominciato a parlare circa un mese fa e le aziende stanno cominciando adesso ad anticipare l’80% della cassa integrazione ai lavoratori più fortunati.

Ecco, la tua risposta ci dà la possibilità di isolare due questioni cruciali che ci sembra l’emergenza abbia portato sul tappeto… in primo luogo, tu hai giustamente sottolineato che, nel nostro paese, la gestione dell’emergenza è stata messa immediatamente in mano ai medici, mentre altrove – e questo è stato evidente soprattutto nella prima fase e lo è ancora di più adesso, nel passaggio alla fase 2 – la responsabilità della gestione è stata più propriamente politica.  La seconda è l’intervento, nell’ambito decisionale, dell’OMS – quale organismo sovranazionale – che in qualche misura ha condizionato le scelte in tutti i paesi, chiaramente con diversi gradi di intensità, come il caso italiano dimostra. Ora, anche da questo punto di vista, a nostro avviso e seguendo il tuo discorso, il modello italiano appare connotato negativamente. Da un lato, in Italia vi è stato un tentativo di deresponsabilizzazione della classe politica, che si è affidata ai tecnici, per definizione esperti che non possono fallire. Dall’altro si è dato spazio, nel dibattito pubblico (usiamo la parola “dibattito” come eufemismo)  solo a quella parte della comunità scientifica che seguiva supinamente le indicazioni dell’OMS, che di fatto portavano alla serrata totale. Il nostro paese rischia di pagare a caro prezzo l’essersi affidato passivamente a indicazioni altrui che non tengono in conto l’interesse generale per connaturata incapacità (il tecnico è uno specialista di un solo settore) o perché si tratta di organismi come l’OMS sottoposti a pressioni che potrebbero non combaciare con gli interessi nazionali (il tuo riferimento alle case farmaceutiche è tanto appropriato quanto realistico). Qual è questo prezzo che l’Italia rischia di pagare per l’incapacità della nostra classe politica di rappresentare la sua funzione?

Innanzitutto è un salatissimo prezzo in termini di recessione economica. Le stime diffuse qualche giorno fa dal Fondo Monetario Internazionale parlano di un abbattimento del PIL pari al 9,1% per il 2020, quelle del governo, più ottimistiche, dell’8%. Ciò che è certo è che l’Italia, in un mondo complessivamente colpito da un’eccezionale crisi economica (probabilmente superiore persino a quella del 1929), sarà tra i paesi industrializzati quello che subirà il maggiore decremento del PIL. E questo proprio a causa della “superserrata” a cui si è sottoposto. Dietro quei numeri ci sono milioni di posti di lavoro che andranno perduti; centinaia di migliaia di aziende grandi medie e piccole, soprattutto piccole, che non riapriranno più; interi settori, come quello turistico, che perderanno oltre il 90% del loro fatturato. E, su questo punto, va aperta una parentesi.

Il disastro economico (e sociale) colpirà soprattutto il Sud, che da oltre 25 anni è sottoposto a una subdola retorica secondo cui esso avrebbe dovuto puntare tutte le sue carte su cultura e turismo (e il cibo). Una follia già di per sé, che i meridionali si sono bevuti, così come tutti gli italiani hanno ripetuto come un mantra in questi due mesi il ritornello #andràtuttobene #restateacasa. In un’economia moderna il turismo può valere sì e no il 9, massimo il 10% del PIL: solo di turismo e di cultura possono vivere i piccolissimi centri oppure, molto male peraltro, paesi sottosviluppati come Cuba. Il turismo è “un’aggiunta” alla produzione complessiva di ricchezza di un paese e peraltro funziona meglio proprio laddove il complesso produttivo è più ricco: non è un caso che città non particolarmente belle come Berlino e New York siano ai primi posti per ricavi turistici e in Italia Milano sia la città più visitata. Di solo turismo non si mangia, o mangiano tantissimo in pochi. Ma tornando all’Italia la recessione aprirà le porte a un’ulteriore esplosione del debito pubblico e del rapporto deficit/PIL con l’evidente rischio che un paese, già valutato dalle agenzie di rating appena un gradino sopra “junk” in relazione all’affidabilità dei suoi titoli di Stato, non possa più accedere ai mercati per finanziarsi, in base ai regolamenti correnti.

In molti hanno paragonato la pandemia a una guerra. Sicuramente dal punto di vista economico il paragone è inappropriato. In una guerra la produzione non rallenta, anzi. Non si determina una crisi sia sul lato della domanda che dell’offerta contemporaneamente. Quali contorni assumerà la crisi economica in arrivo è ancora troppo presto per definirli: l’impatto di uno shock come questo su un’economia moderna ci è ignoto.

Ma l’Italia non è solo il paese che subirà maggiormente il contraccolpo finanziario della pandemia. L’estromissione della politica avrà effetti anche sulla nostra democrazia e sui nostri diritti civili e costituzionali. A proposito dell’assenza di “dibattito pubblico” cui hai fatto riferimento, va sottolineato che in nessuna nazione europea esso è stato completamente annichilito come qui da noi. Ovunque in Europa si è discusso sulle misure da adottare, sulla bontà della serrata, sull’opportunità o meno di sospendere diritti sanciti dalla Costituzione come quello a riunirsi o a muoversi liberamente. In Italia il continuo riferimento ai pareri di un sedicente comitato tecnico-scientifico da parte del governo ha annientato qualsiasi confronto e ha consentito al governo di emanare una serie di provvedimenti tramite dpcm o atti amministrativi, senza alcun avvallo ufficiale del Parlamento. Senza il minimo sussulto da parte dell’opinione pubblica abbiamo assistito ad elicotteri che calavano sulle case della gente per impedire una grigliata; a genitori con bambini inseguiti dalle forze dell’ordine come delinquenti per una semplice boccata d’aria; a raid di moto d’acqua contro solitari amanti dell’aria di mare; a vere e proprie persecuzioni contro sacerdoti colpevoli di aver celebrato messa davanti a 15 persone in una chiesa di 300 metri quadri. Le restrizioni dei diritti subite in nome della medicalizzazione della nostra vita sociale sono state giustificate dallo stato di emergenza e, come spesso accade in questi casi, non sarà facile tornare indietro.

Arriviamo dunque ad un’altra evidenza che ci ha portato il virus. L’Europa, questa grande incompiuta, appare dilaniata da contrasti interni e in ogni caso da una assoluta incapacità di coordinamento nel gestire l’emergenza sanitaria. A ciò adesso si aggiunge una lentezza imbarazzante nell’affrontare – anche a livello continentale – le conseguenze della crisi economica in essere, che è poi l’unico ambito su cui Bruxelles dovrebbe agire. Invece, ognuno gioca per sé e l’impressione è che qualcuno abbia più carte di altri e non sia disponibile a cedere nulla. Eppure questa poteva essere l’occasione per un’Europa diversa… dalle crisi nascono sempre opportunità. Credi che sarà l’ennesima opportunità persa?

Personalmente credo che la partita sia ancora tutta da giocare. L’Europa è davvero a un bivio, rinascere o naufragare, ma il dibattito è drogato e non è facile per i cittadini comprendere i veri termini della questione.

Si è a lungo parlato di scarsa “solidarietà” europea, dimenticando che la solidarietà non è una categoria della geopolitica. Non si capisce per quale ragione paesi come la Germania, l’Olanda eccetera, in una situazione di crisi, grave anche per loro sebbene di meno, avrebbero dovuto darci i loro soldi a fondo perduto e senza chiedere nulla in cambio. Anche il dibattito sul MES è impostato male, così come quello sugli eurobond o quello appena cominciato sul fantomatico “Ricovery Fund” che ha reso il presidente del Consiglio così entusiasta.

Anche in questo caso il tema è tutto politico, prima ancora che economico. Il MES è già lì pronto, attivo e con un po’ di risorse in cassa; l’Italia ha bisogno di soldi, tanto è vero che ancora non riesce a pagare la cassa integrazione o a immettere la famosa liquidità nel circuito economico disastrato. Hanno ragione, dunque, coloro che dicono “lì ci sono 36-37 miliardi, cominciamoli a prendere”. Il problema è che il MES presta soldi, non li regala, e pone condizioni per la restituzione. Sottoscriverlo comporterebbe in ogni caso conseguenze sulle nostre politiche di spesa pubblica, con o senza Troika. Quanto agli eurobond, che comunque sono nuovo debito sebbene ottenuto in una logica di condivisione tra tutti i paesi dell’Unione, dovrebbe essere ormai chiaro a tutti che la loro emissione non è così semplice, perché impone alla Germania una revisione costituzionale che, seppure ci fosse la volontà politica di realizzare, non sarebbe conseguibile in tempi brevi.

Il “Recovery Fund”: da quello che si capisce dovrebbe essere un nuovo strumento finanziato con le risorse (aumentate) del bilancio europeo, con in più la possibilità di emettere bond, per finanziarsi ulteriormente sui mercati. Anche in questo caso i tempi non sarebbero brevi e le modalità di utilizzo di quei fondi ancora tutte da definire. Ciò che è certo è che quei soldi non li troveremmo sugli alberi, proverrebbero dai contributori netti dell’UE e l’Italia è uno di questi e bisognerebbe, in questa situazione di crisi, anticiparli e più di quanto fossimo tenuti a fornire appena due mesi fa. Senza considerare che i negoziati per il bilancio 21-27 sono ancora in corso.

La verità è che è ingenuo chiedere aiuto all’Europa, perché l’Europa siamo noi. Così come è assurdo pensare che ci sia una soluzione indolore alla crisi. Il cuore della questione europea, in realtà, è la Banca Centrale. Se fosse una banca centrale come quella inglese, americana, cinese o russa, essa potrebbe mitigare gli effetti della crisi stampando moneta, certo generando un po’ di inflazione, ma offrendo all’economia la possibilità di rimettersi in moto. Essa è invece costretta a sottostare a una serie di meccanismi contorti, che impediscono la monetizzazione del debito e vincolano ai mercati finanziari il nostro approvvigionamento di risorse. È la complessiva architettura europea che non funziona.

Essa è un ibrido incompiuto: oscilla tra l’Europa delle Nazioni di degaulliana memoria, ben visibile negli scontri e nelle trattative del Consiglio d’Europa, e la spinelliana utopia di un’Europa federalista, rappresentata da burocrazia, BCE e ideologia globalista, incapace di dialogare con le molteplici identità e specifiche esigenze territoriali dei popoli che la compongono. Per salvarsi l’Europa dovrebbe divenire un’entità sovrana, non un “superstato” ma un “impero continentale”, in grado di difendere i confini esterni, garantire la sicurezza interna e battere sovranamente moneta, con una banca centrale collegata a un ministero del tesoro europeo. Il modello di riferimento potrebbe essere la Svizzera, ma in ogni caso parliamo di qualcosa da costruire totalmente. Per farlo occorrerebbe un’ambiziosa volontà politica, condivisa da tutti gli Stati Europei, ma che dovrebbe avere in Roma il suo fulcro spirituale e in Berlino il suo centro geopolitico, finalmente disponibile ad assumersi il ruolo di guida del continente, con annessi onori e oneri.

È possibile tutto questo?

Teoricamente sì, ma poco probabile e non solo per la scarsa qualità e lungimiranza delle classi politiche del Vecchio Continente, ma soprattutto perché proprio Italia e Germania, che per ragioni diverse, assieme alla Francia, dovrebbero essere le nazioni-perno di un nuovo “nocciolo duro” europeo, sono tutt’oggi entità statuali a sovranità limitata, dopo gli esiti del secondo conflitto mondiale. Come potrebbero dar vita, dunque, ad una nuova entità geopolitica pienamente sovrana e in grado di competere sulla scena mondiale con gli altri “imperi continentali” (USA, Cina, Russia)?

E se questo non accadrà? Ritorniamo al punto di prima, all’eccessiva onerosità per l’Italia di far parte di questo ibrido rappresentato dall’UE per come è fatta, che potrebbe diventare insostenibile a causa dello schock pandemico. A quel punto sarebbe l’UE a non essere più realisticamente conservabile, con il risultato di vederla deflagrare, il che produrrebbe conseguenze di vasta portata, la maggior parte delle quali tutt’altro che desiderabili. Non è detto che qualcuno in Germania non ritenga questo il finale più probabile della storia, che, in ogni caso, si è rimessa inesorabilmente in moto.

Torniamo in Italia. Dirigi il mensile Culturaidentità, che appare orientato a rappresentare un riferimento per un certo ambiente culturale che cerca di sottrarsi, a fatica, alla storica egemonia che quella che era la sinistra, e che oggi è lo schieramento che noi definiamo “politicamente corretto”, ha sempre esercitato nel nostro paese. Ora, questo ambiente – per quanto variegato e diviso al suo interno sia – ci è apparso colpevolmente fossilizzato sulla narrazione dominante veicolata dai media sul Covid-19 e incapace di guardare al di là del momento contingente, come invece dovrebbe fare chi ha a cuore il destino innanzitutto della comunità di appartenenza e possiede i riferimenti storico-culturali per comprendere gli scenari che si aprono agitando lo spauracchio della emergenza e perorando i possibili provvedimenti consequenziali, sia in termini di controllo sociale sia in termini di monopolizzazione e annichilimento dell’opinione pubblica (si pensi alla task force istituita contro le fake news o agli attacchi delegittimanti condotti nei confronti dei medici non allineati).

Ora se è vero che, fosse solo per mero tornaconto elettorale, non sorprende più di tanto l’atteggiamento di alcuni partiti politici di opposizione, che si sono trovati scavalcati “a destra” dal governo e che – avendo essi stessi responsabilità di governo regionale – hanno preferito non opporre alcuna reale resistenza ad una pratica governativa che è arrivata addirittura a sospendere gran parte di diritti costituzionalmente tutelati a base di atti amministrativi, esautorando il parlamento, risulta invece meno comprensibile il silenzio imbarazzante – a parte poche eccezioni – dei soggetti pensanti di quell’ambiente culturale sullo scempio in atto, a tutti i livelli. Le critiche più pertinenti sono arrivate ancora una volta dalla sponda opposta, e pensiamo alle prese di posizione di Agamben e Cacciari, non a caso due grandi lettori – da sinistra – di Carl Schmitt, lo studioso tedesco dello stato d’eccezione e del rapporto tra tecnica e decisione politica. Tu hai colto da subito questa carenza, invitando pubblicamente la destra a rileggere “Il Trattato del Ribelle” di Ernest Junger, altro gigante del Novecento che appare assolutamente profetico…

Al di là degli aspetti più squisitamente politici della questione, che tu hai abilmente tratteggiato, il punto vero è che “a destra” oramai mancano gli strumenti e gli uomini per elaborare un’analisi o un pensiero. La centralità culturale assunta da un prodotto come CulturaIdentità nel panorama culturale della destra è disarmante, sotto questo aspetto. Parliamo di un mensile costruito tanto decorosamente, quanto faticosamente, ma che dovrebbe essere inserito in un “sistema” che invece non esiste. Mancano significative centrali di produzione culturale nel mondo accademico, che sappiano anche fornire le necessarie opportunità a chi intenda intraprendere professionalmente una carriera da intellettuale: non era così fino agli anni Ottanta. Non esistono case editrici di livello significativo riconducibili a questa area culturale: esperienze come Rusconi, Volpe, Longanesi o Ciarrapico sono da tempo scomparse. Quasi inesistente la stampa quotidiana e totalmente concentrata al Nord. Soprattutto il mondo della “destra” non è rintracciabile in seno agli apparati e alle classi dirigenti in senso lato del nostro paese. Tutto è parcellizzato e isolato, a cominciare dalle singole persone. La verità è che è mancato un passaggio di testimone, tanto più grave perché, se è vero che negli anni Settanta la destra era emarginata e marginalizzata, dagli anni Novanta in poi ha avuto delle opportunità.

Per anni si è parlato di “gramscismo di destra” e di “egemonia culturale” senza capire che tutto questo implica costi, infrastrutture e un target di pubblico di riferimento ben definito, che non è quello elettorale o delle subculture di massa, ma al contrario quello delle élite che in modi diversi determinano gli assetti di potere in un certo contesto nazionale.

Nell’assenza di tutto questo, la politica rincorre i sondaggi e si riduce a parole d’ordine che, infinitamente reiterate, non rendono poi possibile una reazione veloce allorchè, come in questo caso, si determina un cambio di paradigma. E un certo, mai sopito, richiamo al valore dell’autorità e della sicurezza, ha fatto dimenticare un assioma in fondo assai semplice, che la dittatura è bella solo quando il dittatore sei tu. Mancavano gli strumenti gnoseologici e perfino i linguaggi per avvertire sin dal primo momento dello svilupparsi della pandemia, il pericolo che politiche securitarie e medicalizzanti potevano rappresentare per la libertà di espressione dei non allineati al “politicamente corretto”.

Eppure autori di riferimento ce ne sarebbero: Burke, de Maistre, Nietzsche, Schmitt, Junger, Longanesi, Heidegger, Evola. Potrei continuare a lungo. Nella critica del giacobinismo e della modernità sviscerata da questi autori c’è tutto quello che occorre per fronteggiare la soppressione delle nostre libertà cui assistiamo in questi giorni. Nel “Trattato del Ribelle” è finemente descritto molto di quanto sta accadendo. Ma per avere la lucidità di analizzarlo e il coraggio di assumere le scelte consequenziali occorre aver conservato nel cuore e nella mente un bosco rigoglioso, di energia etica ed intellettuale, nel quale rifugiarsi come un bandito braccato, ma non domo, non piegato. Disposto a organizzarsi spiritualmente, prima ancora che politicamente, per passare al contrattacco, inevitabilmente asimmetrico, e calare sulla città per liberarla.

Di tutto questo qualcosa, di vivo e vitale, è rimasto?

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