Il virologo Tarro sul Covid19: “Le misure del governo italiano? Tardi per essere convenienti, giuste per aumentare il panico”

Il virologo Tarro sul Covid19: “Le misure del governo italiano? Tardi per essere convenienti, giuste per aumentare il panico”

Giulio Tarro è un virologo di fama internazionale, probabilmente tra gli esperti italiani più conosciuti e apprezzati all’estero. Autore di numerose pubblicazioni scientifiche, ha ricevuto svariati premi nazionali e internazionali per gli studi condotti. Eppure, all’epoca del Covid-19, pochissimi giornalisti gli hanno chiesto cosa ne pensasse. In tv non è stato ospitato. Per cui gli abbiamo chiesto di rispondere ad alcune domande.

Prof. Tarro, lei ha un’enorme esperienza in tema di epidemie. Affrontò quella del Colera a Napoli, che in realtà fu un episodio italiano all’interno di una più ampia pandemia che durò anni e toccò 59 paesi nel mondo. Immaginiamo questo virus che arriva in Italia trent’anni fa… cosa sarebbe accaduto?

Veramente, nel 1973, quando scoppiò il colera a Napoli, al di là di qualche folkloristica “barricata”, notai soprattutto confusione; una situazione che si ripropose nel 2003 quando una folla inferocita di parenti di familiari lì ricoverati per la SARS tentò una sorta di “assedio” all’Ospedale per malattie infettive Cotugno, dove ero Primario.  Episodi riportati da tutti i giornali del mondo, che avvenivano in una città certamente preoccupata ma che non vedeva l’attuale arrembaggio dei supermercati da parte di persone che, evidentemente, temono di dover morir di fame in chissà quale lazzaretto.

Panico generalizzato e costellato anche da qualche episodio di violenza, invece, nel 1978 durante il cosiddetto “Male Oscuro” provocato – mi permetta una vanità: lo scoprii io – da virus respiratorio sinciziale, che colpisce quasi tutti i bambini entro i due anni di vita, e che in alcuni casi provoca la morte.  Intanto, perché erano bambini a morire. Poi perché un numero elevatissimo di bambini affetti da bronchiolite erano stati dirottati, da tutti gli ospedali della Campania, nell’ospedale pediatrico Santobono di Napoli. Lì, la morte (anche per sciagurate diagnosi e “terapie”) di alcuni di questi cominciò a trasformarsi sui giornali in una “epidemia di Male Oscuro” che terrorizzò tutta la popolazione. Panico che certamente sarebbe aumentato se si fosse imposto uno screening di massa per cercare il virus che, certamente, avrebbe determinato un numero spropositato di ricoveri e il collasso dei sistemi sanitari.

Ogni giorno la Protezione Civile fa il conto di decessi, guariti e contagiati. In questa speciale classifica l’Italia è tra i primi posti al mondo, con un tasso di letalità altissimo. Ieri però abbiamo letto sul Corriere che l’ICL (Imperial College di Londra) stima, secondo calcoli matematici, che almeno il 9,8% degli italiani abbia il Covid19. Si tratterebbe di quasi 6 milioni di persone. Ma se così fosse il tasso di letalità sarebbe enormemente ridimensionato e i numeri dati dai giornali sballati….

Nelle epidemie come quelle influenzali, generalmente, si tende a ridurre l’entità del picco epidemico “spalmandolo” in un periodo più lungo possibile; questo per evitare il collasso del sistema sanitario conseguente al numero elevato di ricoveri.

Va da sé che ognuna di queste strategie deve essere scelta analizzando precisi dati; tra questi, fondamentale è la stima attendibile dei non contagiati, dei contagiati e delle persone che questi potrebbero infettare. A tal riguardo, ad esempio, nella Corea del Sud, si sta procedendo non solo a sottoporre a tampone anche persone che non manifestano particolari quadri clinici ma, addirittura, tracciando tramite il loro cellulare lo spostamento di questi, a determinare (una volta saputa la loro eventuale positività) la pericolosità rappresentata da questi.

In Italia, invece, il numero dei tamponi e le procedure per effettuarli è stato lasciato, sostanzialmente, all’arbitrio delle Regioni determinando, a mio parere, una inattendibile stima. Con questa situazione non si capisce perché tra le varie strategie che si sarebbero potute adottare, dopo l’isolamento domiciliare della popolazione non impegnata in determinate attività lavorative, si prospetti addirittura una quarantena per tutte le persone. Misura che non è chiaro quanto tempo possa durare. Preciso che la mia è una stima che si basa sulla interpolazione dei dati riferentisi a contagiati in epidemie virali respiratorie verificatesi negli ultimi decenni in Italia. Da ciò si deduce che il tasso di letalità del COVID 19 è considerevolmente inferiore all’1%: una constatazione fatta propria anche in uno studio  del collega  Anthony Fauci, del National Institute of Allergy and Infectious Diseases statunitense, sulla base di un rapporto incentrato su 1099 pazienti con COVID-19 confermato in laboratorio provenienti da 552 ospedali cinesi.

Ciò suggerisce che le conseguenze cliniche complessive del COVD-19 potrebbero in definitiva essere simili a quelle di una grave influenza stagionale, che presenta un tasso di letalità dello 0,1% circa, o di un’influenza pandemica come quella del 1957 o del 1968, piuttosto che a quelle della SARS o della MERS, caratterizzate rispettivamente da una letalità del 10% e del 36% e che, incredibile a dirsi, non hanno prodotto nessuna campagna allarmistica nel nostro Paese. Certamente, la particolarità di questa variante di coronavirus può colpire i polmoni e, se diventa polmonite interstiziale, può richiedere la terapia intensiva».

Da un documento appena pubblicato a cura del Ministero della Salute, che monitora l‘andamento della mortalità giornaliera in 18 città italiane (tra cui Brescia, Milano e Roma) in relazione all’epidemia da Covid 19 nel periodo 1 febbraio-21 marzo, paragonando la percentuale di decessi in tali città con la media di decessi dei 5 anni precedenti, emerge che la mortalità quest’anno cresce in maniera significativa solo al Nord, per i soggetti superiori a 75 anni. Dallo stesso report si evince che in percentuale, nello stesso periodo dell’anno, i decessi sono aumentati del 18 per cento rispetto alla media dei 5 anni precedenti. Il dato è pesantemente condizionato dai casi di Brescia (88 per cento in più)  e Milano (33 per cento in più) e in genere da quelli del Nord. Se però confrontiamo lo stesso dato con la terribile influenza del 2017 (a cui Ricciardi, allora Presidente dell’ISS, attribuì l’incremento di 20.000 decessi rispetto agli anni precedenti) notiamo che la differenza dei numeri in gioco non sembra così enorme e comunque non tale da giustificare le misure prese in tutto il paese. Ma se il virus è molto contagioso e, probabilmente, circola quantomeno da dicembre, può spiegarci perché un così alto livello di ospedalizzazione e mortalità solo in alcune zone della Lombardia?

Ci sono più fattori che possono aver interagito insieme e che spiegano la situazione. Si presume che i contatti con il virus cinese siano stati maggiori al Centro-Nord che non al Centro-Sud. A ciò si aggiunga la concomitanza delle situazioni ambientali e climatologiche, diverse fra Nord e Sud dell’Italia, arrivando addirittura ad ipotizzare che nel corso delle settimane si sia venuto a formare un coronavirus padano autoctono, diverso rispetto a quello cinese. Altre possibilità emergono dalle situazioni di Bergamo e Brescia soprattutto, dove si presume che la circolazione di altri virus possa aver facilitato l’azione del SARS-Cov-2. Il problema, però, è stato soprattutto a monte: e cioè il non avere sufficienti posti letto in terapia intensiva, occupati in massima parte già a causa dell’influenza annuale. Sembra che la vaccinazione antinfluenzale favorisca l’infezione da coronavirus, addirittura in percentuale maggiore del 36% come comunicato da uno studio militare americano. D’altra parte, dal momento che vi è stata una recente emergente meningite, sono state vaccinate 34000 persone tra Brescia e Bergamo. Vi è una pubblicazione di studiosi olandesi stampata da un giornale scientifico dell’Università di Cambridge in cui sia la malattia meningococcica che pneumociccica sono stati associati con l’attività dei virus influenzali e di quello respiratorio sinciziale.

Quindi Lei ritiene plausibile l’esistenza di un ceppo italiano, che si affianca in Lombardia a quello proveniente dalla Cina?

L’equipe del laboratorio dell’Ospedale Sacco di Milano ha isolato un nuovo ceppo del Covid-19 detto “italiano”. Ebbene, sembra che tale virus sia domestico e non abbia cioè alcunché da spartire con quello cinese proveniente dai pipistrelli. Insomma, i contagi sarebbero due: uno pandemico a diffusione lenta attraverso i viaggi degli infettati, e l’altro locale. Quest’ultimo poco più che un virus para-influenzale, di nessuna nocività mortale se non per la solita parte “a rischio” della popolazione.

L’ipotesi che questo Coronavirus identificato in Italia fosse già presente prima che arrivasse quello di Wuhan, spiegherebbe perché mai tante persone che dichiarano di non aver avuto alcun contatto, anche indiretto, con persone provenienti dalla Cina o che, addirittura, sono rimaste confinate nelle loro case, siano risultate positive ai tamponi.

Il virus italiano che, al momento, si direbbe confinato principalmente nel Nord Italia, potrebbe dipendere da fattori ecologici come l’esistenza di alcuni tipi di concime industriale (particolarmente costosi e, quindi, utilizzati in aree particolarmente floride economicamente) che hanno alterato l’ecosistema vegetale e, quindi, animale nel quale uno dei tanti coronavirus normalmente in circolazione può avere avuto una inaspettata evoluzione. Sarebbe, quindi, opportuno analizzare se in passato nelle aree dove oggi, in Italia, si localizza il Covid-19 si siano registrate particolari forme di faringiti o sindromi influenzali.

Lei ha immediatamente messo in guardia circa le conseguenze del panico generalizzato creato dai media, che verosimilmente ha portato ad una corsa agli ospedali oltre che all’abbassamento delle difese immunitarie in molti soggetti travolti dalla paura. Eppure, questa induzione di panico è continua e incessante ancora oggi. È chiaramente dettata dalla necessità di far accettare alla popolazione la compressione della propria libertà personale, funzionale a quel distanziamento sociale che viene ossessivamente proposto come unico rimedio possibile. Ma non può essere peggio il rimedio del male?

Ricordo che oltre alla cattiva alimentazione e agli stili di vita sregolati, il nostro sistema immunitario può essere compromesso dallo stress. Questi “bollettini di guerra” costantemente diffusi dai media non aiutano. Andrebbe staccata la spina ad una “informazione” – ad esempio, come quella che sta trasmettendo la RAI – ansiogena e ipocritamente intrisa di appelli a “non farsi prendere dal panico”. E questo, soprattutto, per permettere alle strutture sanitarie interventi mirati. Quali questi debbano essere non mi permetto qui di suggerirli in quanto, nonostante lo sfascio del Sistema Sanitario Nazionale, abbiamo ancora in Italia ottimi esperti. L’importante è che siano lasciati in grado di lavorare.

Il nostro governo si è sempre trincerato dietro il parere della comunità scientifica per legittimare le proprie scelte dell’ultimo mese e mezzo. Contemporaneamente, questa pandemia viene presentata come un qualcosa di imprevedibile, come una calamità naturale contro cui tutto quello che si poteva fare si è fatto. Sono due narrazioni che tendono, evidentemente, a deresponsabilizzare il potere politico. La cosa fa un po’ sorridere, amaramente, se si pensa ai tagli alla sanità avallati negli ultimi vent’anni e anche all’enorme numero di contagiati tra medici e infermieri, che fa pensare al fatto che chi è in prima fila non è stato adeguatamente protetto e che i nostri ospedali sono diventati moltiplicatori del contagio. Quanto hanno inciso i tagli al nostro sistema sanitario su quella che è divenuta la più grande emergenza del dopoguerra?

Intanto, ricordo che secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, il nostro Paese ha dimezzato i posti letto per i casi acuti e la terapia intensiva, passati da 575 ogni 100 mila abitanti ai 275 attuali. Un taglio scandaloso del 51%, operato progressivamente dal 1997 al 2015, che ci porta in fondo alla classifica europea. Tra l’altro va detto che, nonostante le immagini di quello che stava succedendo in Cina fossero sotto gli occhi di tutti, si direbbe che – a differenza di altri paesi come la Francia – ben poco abbia fatto l’Italia per prepararsi all’epidemia.

In più è da segnalare che, a seguito della enfatizzazione della minaccia rappresentata dal COVID 19, sono stati portati nei reparti di terapia intensiva pazienti che avrebbero potuto essere trattati in altre strutture.

Per quanto riguarda, poi, il picco di morti che si registra in Lombardia è da notare che questa regione risulta essere al primo posto per la effettuazione di tamponi; ciò, unito alla disinvolta pratica di presentare, anche in sedi istituzionali, come “morti per coronavirus” pazienti che, invece, potrebbero essere “morti con Coronavirus” (e cioè affetti da patologie pregresse che hanno causato la morte) potrebbe spiegare il “picco di mortalità per COVID19” della Lombardia.

Per questo sarebbe opportuno prima di identificare nel COVID19 la causa primaria della morte, svolgere le indispensabili indagini patologiche e, soprattutto, definire uno standard da applicare su tutto il territorio nazionale. Una questione che – a mio parere – continua a non avere lo spazio che si merita.

In definitiva, le misure prese erano le uniche possibili visto lo stato del sistema sanitario del nostro paese? È il lockdown ad aver fermato il virus al centrosud? Oppure si poteva adottare un’altra strategia, che avrebbe evitato la paralisi al paese e, almeno in parte, la crisi economica che ci aspetta e l’enorme prezzo pagato – e da pagare – dalla popolazione in termini psicologici e sociali?

Fermo restando che il problema va visto sempre in ottica europea, ritengo che quelle del governo italiano siano misure decise con una tempistica poco felice: varate in ritardo sull’effettiva convenienza ma al momento giusto per aumentare stress e panico. Sarebbe stato opportuno per esempio pensare per tempo a un raddoppio dei reparti di terapia intensiva: lo ha fatto la Francia, che pure ha meno casi da gestire. Pensi che negli Stati Uniti, già a partire dal 2 Febbraio scorso, è stata ripristinata la quarantena federale (i quindici giorni di isolamento cautelativo) per coloro che venivano dalla Cina o che avevano avuto rapporti con i cinesi. Questo, naturalmente, non ha impedito al Coronavirus di arrivare anche lì, ma credo che la situazione non verrà affrontata nel modo in cui la stiamo affrontando noi.

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