Marco Biagi, la viltà e l’art. 18

Marco Biagi, la viltà e l’art. 18

La viltà non ha a che fare con Marco Biagi. La Morte, nel modo in cui si presenta, lascia un segno indelebile anche su una vita spesa in senso diverso dal teatro del proprio trapasso. Il professore universitario, la sua bicicletta, il commando delle BR che lo fredda, presentandogli, tutto insieme, il conto della violenza delle idee; di tutte le idee, riformiste e conservatrici. A chi muore come è morto Biagi, va lasciato il silenzio della morte. E allora si dirà della viltà di chi lo ha ucciso, di cellule dormienti di quell’orizzonte limitato che è stato il realismo comunista. La viltà di chi ha preteso di difendere quell’ipocrita compromesso che è contenuto nella Costituzione italiana (“l’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro”) da chi pretendeva di precarizzarla, unitamente ai sui cittadini? La viltà di chi da sempre è abituato ad attingere il proprio nemico alle spalle? Certamente. Nel modo di operare, la cellula comunista opera vilmente seguendo una tradizione di viltà, per quanto avesse scelto nel professore ed anche in quello precedentemente assassinato, anni prima, artefici, simboli e vettori di cambiamenti inarrestabili; per quanto avesse capito, con anni d’anticipo, il potere dei tecnici anzi… dei professori. Ovvero la vile delega dei politici ai tecnici. L’avevano capito i brigatisti e non l’aveva capito (o voluto capire?) lo Stato vile, lasciando il professore sulla sua bicicletta nera, invece di farlo accomodare sulla diffusissima italica auto blu.

E dall’omicidio vile, si apre lo spettacolo della viltà di chi resta in vita e vilmente sfrutta la morte. La nenia dei vili si alza fortissima. Tutti amici del professore. Tutti riformatori come il professore. Presidenti del Consiglio diversi, tutti con gli occhi lucidi nel presentare il conto alle nuove generazioni, in memoria del professore. Vilmente, scompaiono maggioranze ed opposizioni. Anche chi in questi giorni difende l’art. 18, salendo sul “carroccio” dei contestatori, era buon amico di Biagi. Anche il sindacalista si commuove. Tutti amici, tutti commossi, tutti vili. La viltà non c’entra con Marco Biagi, ma c’entra e come con chi (tutti) ha utilizzato anche l’onda emozionale del suo, vile, trapasso per distruggere, in un sol colpo, decenni di sofferenze che pur avevano equilibrato il rapporto tra capitale e la forza lavoro. Tutto finito. In dieci anni, tutto spazzato via. Prima la riforma del mondo del lavoro, poi il definitivo passaggio di poteri alla finanza, poi le crisi economiche ed infine… un altro professore, a presentare, alle presenti e future generazioni, l’ennesimo conto.

Sia ben chiaro, queste righe non intendono riabilitare, in nessuna forma, chi ha nella propria cultura l’attentato, l’omicidio alle spalle, la viltà appunto. Ma come sempre accade ormai, nel regime democratico occidentale, la creazione del mostro o dei mostri, agevola forme più gravi e devastanti di attentati. L’attentato operato ad una serie di generazioni, da parte della, vile, politica italiana? La stessa, vile, politica italiana che tanto si trova a suo agio, nel ricordare il professore, mentre un altro professore, dalla stessa delegato con maggioranze vilmente bulgare, perpetra attentati, anzi macelleria sociale, come si usa dire oggi. A Biagi nulla può essere imputato, Biagi era un professore, un tecnico, anche se il senso del cambiamento del suo contributo giuslavoristico, è stato, in definitiva, violento, limitato e ideologico, proprio come il cannone di chi, vilmente, lo ha freddato.

Sono altri i vassalli della mattanza degli ultimi anni, gli inetti che hanno abbracciato l’ideologia della globalizzazione; stupidi, stupidi, stupidi marmocchi inebetiti e foraggiati dal progresso. Il risultato è agghiacciante: generazioni spezzate tra desideri futili, ma scientemente e volutamente incontrollabili, e la sterilità che porta uno stipendio di 1000 euro al mese, quando c’è e quando dura più di sei mesi. I veri imputati, sono sempre i soliti noti. Sono sempre gli stessi. Stanno sempre agli stessi posti. Il vecchio ministro schernisce queste generazioni, li chiama “bamboccioni” dall’alto del pulpito sul quale deve per forza salire, per dare un minimo di credibilità alla sua… statura! Il nuovo presidente professore, gli dice che è noioso il posto fisso, dimentico che prima di accettare il proprio contratto a progetto con lo stato (anzi con la finanza), aveva abiurato la propria precarietà, pretendendo lo status di senatore a vita! I quattro brigatisti stanno alle sbarre e ci rimarranno com’è giusto che sia, perché la viltà si paga. E gli altri vili? Si alternano, si sciolgono, si ricompattano i politici. Cambiano le scrivanie degli stessi quotidiani, i giornalisti. Raramente in mala fede, perché la mala fede non è roba per ignoranti. Ma la viltà si.

[La foto, che ritrae il “professore” come advisor della Goldman Sachs, è del Financial Times]

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