A favore della chiusura domenicale

A favore della chiusura domenicale

Non resta niente, perdio. E men che meno dio, di questi tempi. Il vicepremier Di Maio ha garantito che entro la fine dell’anno il parlamento approverà una legge che limiterà fortemente l’apertura domenicale degli esercizi commerciali.

Il tempo svuotato. È con una certa angoscia che gli italiani hanno appreso la notizia, oberati ora del peso di capire cosa diavolo fare la domenica. Un cruccio mica da poco, dato che la domenica è stata progressivamente de-ritualizzata, con la chiesa che raccoglie un numero sempre più sparuto di fedeli e lo stadio che – vista l’imprevedibilità dei calendari di calcio – somiglia sempre più ad una qualsiasi pensilina sotto cui si aspetta un autobus a Napoli. “Oh, sai quando giocano?”; “Non mi ricordo ma sto ad aspetta’ da cinque giorni”. “Ah vabbé, a breve deve passare”.

Il tempo riempito. Non ha una croce sulla sommità, ma un’insegna. Non ha un pallone al centro, ma dentro si rotola. Il distretto commerciale era il luogo in cui riparare la domenica. Il centro commerciale, nello specifico, era il luogo in cui la famiglia rispettava la tregua, con lei finalmente appagata del suo desiderio di fare qualcosa a tutti i costi e lui, arrendevolmente tranquillizzato di non dover fare il giro della città.

Lo spazio spacciato. Ebbene, ora? Escluso che tu resti a casa a fare niente – perché il far nulla è diabolico in una società superficialmente protestante – potresti prendere l’auto e andare in uno o due posti belli, non troppo distanti. Sì, sempre gli stessi: quelli in cui si riversano tutti, per il semplice motivo che la città moderna – proprio per come è concepita – è solo un’intelaiatura di cementi, che disposti in direzione longitudinale si chiamano “strade”, mentre in direzione ortogonale si chiamano “palazzi”. Cementi che, senza lucine e ninnoli dei negozi, sono meno e peggio della porcellana dei cessi. Così, tanto per essere sinceri.

Gli alibi a difesa della liberalizzazione degli orari

Fin qui un aspetto della questione. Abbiamo evidenziato come paradossalmente questa gestione del tempo libero impegni tanto tempo (e occupi tanto spazio sui giornali), perché era utile prima di tutto sottolineare l’essenziale; ossia che esiste un problema con il tempo e lo spazio non di lavoro. Ora occorre guardare agli alibi sollevati a protezione dello shopping domenicale.

Fu il decreto Salva Italia di montiano conio ad introdurre in Italia la liberalizzazione degli orari di lavoro. Di quello spirito patriottico (“Salva Italia”!) resta il piglio fiero di chi chiede l’altrui sacrifizio perché il paese produca da mane a sera, sette-giorni-su-sette, acca-ventiquattro. Il dubbio che tale tempo di lavoro sia realmente produttivo è però stato sollevato più volte anche da economisti, che – in sintesi – sottolineano che accrescere con un orario di lavoro prolungato l’accessibilità ai beni, non li fa aumentare, né rende più ricchi i portafogli. Vale a dire che se in una settimana mangi un chilo di pane, lo acquisterai comunque, che i negozi siano aperti sei o sette giorni. Liberalizzare gli orari di lavoro nel settore commerciale non rende un sistema economico più concorrenziale rispetto ad altri, ma, più modestamente, ne accresce la concorrenza interna tra i diversi attori.

Altro alibi non infrequente, è l’ennesima declinazione del laissez-faire, il cui sostenitore, con tono indispettito rivolto al fascista di turno, partigianamente domanda: “Chi sei tu per decidere cosa devono fare i commercianti?”. Il fatto che solo la Gdo (Grande distribuzione organizzata) possa sostenere ritmi tanto serrati e che proprio la libertà concessagli metta a rischio quella del piccolo commerciante (e la sua stessa sopravvivenza professionale), dovrebbe bastare a screditare qualsiasi benintenzionato liberatore.

Ma che vanno trovando gli italiani?

Secondo un rilievo statistico di Noto Sondaggi condotto il 10 settembre su un campione di mille persone, il 56% degli intervistati sarebbe favorevole all’apertura domenicale. Questione di opportunità forse, ma è qui che si inserisce una nota di merito al governo giallo-verde: decidere nonostante il disappunto della maggioranza rende questo esecutivo, “anti-politico” per eccellenza secondo i detrattori, uno dei più “politici” degli ultimi decenni.

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