Il “calcio omologato” non fa business

Il “calcio omologato” non fa business

Il prossimo 26 gennaio Girona-Barcellona, partita del campionato spagnolo si disputerà a Miami. Non una finale di Supercoppa, per le quali siamo oramai abituati a luoghi e date improbabili, ma una regolare, normalissima partita di campionato. Di quelle che hanno (avevano?!) in Spagna come in Italia, in Germania come in Inghilterra un loro rituale, fatto di orari, luoghi, scaramanzie, persone.

La “poltronizzazione” del tifoso, trasferito dalla Curva al salotto di casa, trasformato da Sostenitore a spettatore è un processo al quale ci stiamo tristemente abituando. Una globalizzazione del prodotto calcio che appare quasi irreversibile: affonda, di certo, le sue radici nel calcio in TV, nell’iper professionismo, nei soldi della Champions, nelle società di calcio che operano come normali aziende, talvolta quotate in borsa.

Chiacchiere da bar, si dirà: luoghi comuni, triti e ritriti. Certo, ma intanto stasera il San Paolo di Napoli, il “nostro” stadio, offrirà una cornice di pubblico da amichevole pre-campionato. E neanche di quelle belle. Dieci, quindicimila tifosi al massimo proporranno uno “spettacolo” a dir poco sconfortante per la media del tifo napoletano. La vedranno a casa, si obietterà, con buona pace del botteghino (voce oramai residuale per gli incassi delle società) e la felicità di broadcast televisivi e presidenti.

Ma non è così. Proviamo a spiegarlo in meri termini economici. Cos’è che muove soldi nel calcio? Si può pensare allo “spettacolo”, ai grandi campioni, agli stadi confortevoli, alle partite in 4K… ma c’è dell’altro: passione, tradizione, amore, identità. Non vuoti termini retorici, ma elementi in grado di muovere economia. Il Calcio in Italia è Nord contro Sud, Guelfi e Ghibellini, ricchi e poveri, operai e “padroni”. Ha una trasversalità e forza unica, una Passione che si tramanda di padre in figlio, producendo in un circolo continuo e quasi mai interrotto anche valore aggiunto da un punto di vista economico.

Il Calcio in Italia, a differenza del basket, della pallavolo o dello stesso rugby (al di là dei valori capace di esprimere ogni singola disciplina sportiva) sopravvive ancora perché una fetta ampia di “malati” non rinuncia al Rito a dispetto delle Nations League e delle pay-tv. Almeno finché non si tira troppo la corda, almeno finché ci saranno beniamini da sostenere e colori da difendere… Almeno finché non si smarrisce quella Magia capace di muovere economia.

Ecco perché, tornando alle questioni di casa nostra, ci sentiamo di criticare non tanto la scelta di aver acquistato una seconda squadra di calcio (per di più poco amata dai napoletani), quanto quella di chiedere di cambiare le regole per poter possedere due squadre nella stessa Serie. Se Napoli o Bari pari son, quelle stesse aziende crolleranno sotto i colpi di un’omologazione che non fa business. Ed è strano, per chi proviene dal mondo del cinema, dove il sogno muoveva un’economia entrata in crisi quando si è passati dalle sale alle multisale, dal grande schermo al piccolo schermo, da regie oniriche e visionarie al racconto della quotidianità.

“Certe cose non si possono comprare… Per tutto il resto c’è Master Card” recita uno storico claim pubblicitario: infarcito di nonni commossi, papà orgogliosi e mamme intenerite, la pubblicità della carta di credito ci comunica l’esatto opposto dello slogan promozionale, ovvero che anche le emozioni si possono comprare. Anzi, aggiungiamo noi, l’emozione è spesso alla base di un acquisto: basti pensare alla fascinazione che subiscono le donne di fronte a borse e scarpe di questo o quel modello. C’è una Magia, insomma, talvolta ancorata a valori identitari come nel caso del “pallone”, capace di produrre economia. Non smarriamola, ne risente la tasca!

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